Jan 5, 2013

Bitte Lebn


Bitte Lebn
Ci sono parole (e immagini) parlanti, che dischiudono, che bussano al cuore, alla testa, alla pancia. Ci sono parole (e immagini) feticcio, che rimandano solamente a se stesse, che non “stanno per qualcos’altro”, il loro potere metaforico è, infatti, annientato . Queste parole sono “maggioranza” e governano a mani basse; e non è governo àristos, dei migliori – come la media o la moda non sono l’espressione di punta, trascendenti e illuminanti di un determinato momento storico.
Queste parole feticcio rassicurano e proteggono. Non sono parole necessariamente rozze, possono essere sofisticate (solitamente leziose), e costruire un gioco di specchi. Chi se ne accorge s’affretta a cercare lo specchio più bello. Ma non lo trova. Lo sguardo dell'Altro, per l'Altro, sfugge a parole, immagini, dipinti e manufatti – e meno male.
Comunque, dopo una sbornia collettiva che dura da più di 30 anni (1980-2013) – ­che chiamerei la stagione narcisistica dell’arzigogolata felicità istantanea (da perseguire a tutti i costi)  – questo nuovo anno potrebbe aprire una nuova epoca, vissuta nel nome della "semplicità", a partire dalle parole.
Per questo "Bitte Lebn" mi convince più di altri graffiti sui muri di Berlino – citazioni di citazioni di citazioni... Post-post-post-moderno… Un’estetica del simbolismo…  Simulacri, in definitiva.
Seguendo il filo del discorso, questo post è esso stesso uno sbrodolamento e potrebbe essere sostituito, più semplicemente, da un: “Bonjour Tristesse. Bitte Lebn”.
Forse si potrebbe dire: “Vivi la vita per quella che è. Raccontala con semplicità”.
Credo che il graffiti sia un invito a scegliere; ma visto che siamo a Berlino, è opportuno – o comunque può aver senso, almeno per me – cercare un significato legato a quel luogo. Il muro impone qualcosa. Il muro non può essere ridotto a se stessi. A meno che non si abbia un rapporto col mondo marcatamente onanistico.
Una delle citazioni più comuni per chi si addentra in una città (filosofo, sociologo, antropologo, architetto etc.)  è quella di Italo Calvino nelle Le città invisibili: “D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.  
È, per me, sorprendente – ma comprensibile al tempo dei tweets –  che la maggioranza degli intellettuali se ne infischi di cosa sta prima e dopo quella frase…
-        Io non ho né desideri né paure, – dichiarò il Kan, – e i miei sogni sono composti o dalla mente o dal caso.
-        Anche le città credono di essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano  a tener su le loro mura. D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
-        O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere, come Tebe per la bocca della Sfinge.

In Inglese
-        I have neither desires nor fears, the Khan declared, and my dreams are composed either by my mind or by chance.
-        Cities also believe they are the work of the mind or of chance, but neither the one nor the other suffices to hold up their walls. You take delight not in a city’s seven or seventy wonders, but in the answer it gives to a question of yours. Or the question it asks you, forcing you to answer, like Thebes through the mouth of the Sphinx.

Più prosaicamente, la città (la vita) non è una mera proiezione del Sé. Tu hai le tue domande, ma anche la città ha le sue –  è Edipo a indovinare l’enigma della Sfinge, interessante ma ci porterebbe altrove. E alle domande di Berlino, col suo Muro, non risponderei con l’ideologia (il già pensato) del ‘900, e neppure con la “sensologia” odierna. Questa, secondo il filosofo Mario Perniola, è una modalità di sentire caratterizzata da un’esperienza anonima e reificata: il “già sentito”. 

“Ai nostri nonni gli oggetti, le persone, gli avvenimenti si presentavano  ancora come qualcosa da sentire, di cui avevano un’esperienza interiore, di cui si rallegravano o si dolevano, a cui partecipavano sensorialmente, emotivamente, spiritualmente, oppure al contrario che nemmeno avvertivano, o che si rifiutavano di avvertire. A noi invece gli oggetti, le persone, gli avvenimenti si presentano come qualcosa di già sentito, che viene ad occuparci con una tonalità sensoriale, emotiva, spirituale già determinata. Il discrimine non sta affatto tra la partecipazione emotiva e l’indifferenza, bensì tra ciò che è da sentire e ciò che è già sentito. Ciò che è da sentire può essere sentito o non sentito; ma ciò che è già sentito può essere solo ricalcato… Il sentire ha acquistato una dimensione anonima, impersonale, socializzata, che chiede  di essere ricalcata” (Perniola 1991, 4).

La sensologia, sequestrando l’esperienza dell’essere umano, lo conduce a un falso sentire ben più difficile da smascherare rispetto alla falsa coscienza dell’ideologia; questo tipo di esperienza, infatti, non pretende di essere portatrice di alcuna verità, ma si costituisce come “nuda effettualità del già sentito”: il sentire, infatti, è difficile da giudicare ed essere oggetto di critica come lo sono, invece, le concezioni del mondo. Sempre secondo lo studioso, persino la percezione del proprio corpo  “oggetto di un’attenzione cosmetica, terapeutica ed edonistica senza precedenti” — l’esperienza meno mediata e  più intima — assume le caratteristiche del già sentito. Per Perniola non si tratta propriamente di una “cultura del narcisismo” (Lasch 1981) ma di un processo ben più inquietante, lo “specularismo”, che conduce a una figura d’identità singolare:  l’uomo specchio.

“Non solo l’immagine di noi stessi non ci appartiene affatto, ma perfino il modo in cui la sentiamo ci sembra in qualche modo estraneo e per così dire prefissato. Se per il narcisista il mondo è uno specchio in cui egli guarda se stesso, l’esperienza del già sentito sembra connessa col diventare lo specchio in cui il mondo si guarda. Perciò forse non tanto di narcisismo è opportuno parlare, quanto di uno specularismo che riflette esperienze già prefigurate” (Perniola 1991, 10).

Ripartire con semplicità non è semplice, ci prova lo scrittore norvegese Erlend Loe in Naïf.Super. Ma di questo parlerò un'altra volta.
Mi dilungo, lo so. Sono italiano... Ma c'è pure la retorica, il feticcio della brevità (di marca anglosassone), che non è migliore, è solo più breve. E in un mondo di  sms, tweets etc. non è difficile capire perché la brevità è tanto apprezzata. Vero?
  
-        PERNIOLA, M. (1991) Del sentire. Torino:  Einaudi.
-   LASCH, C. (1979) The Culture of Narcissism. New York: Norton. Trad. it.  La cultura del narcisismo. Milano: Bompiani 1981.
-    CALVINO, I. (1972) Le città invisibili. Torino:  Einaudi. Eng. Trans. Invisible cities. New York: Harcourt Brace Jovanovich